CineInOratorio 2013 – The company men

The company menRegia di: John Wells

Tre dirigenti di una grande compagnia vengono licenziati, e questo cambia radicalmente le loro vite.

Siamo tristemente abituati alle notizie di aziende che tagliano o chiudono lasciando a casa centinaia di lavoratori alla volta, e anche il cinema più volte ha proposto film che rappresentano il dramma di operai e impiegati che perdono il posto di lavoro.

Stiamo infatti proponendo una trilogia di film che trattano di questi temi: il migliore italiano, Giorni e nuvole di Soldini che verrà proiettato il mese prossimo; il migliore in assoluto, Le nevi del Kilimangiaro del francese Robert Guediguian proiettato lo scorso mese.

Questo mese presentiamo The Company Men che sposta l’inquadratura più in alto, per guardare nella vita di tre dirigenti licenziati dall’oggi al domani. Bobby Walker (Ben Affleck), Phil Woodward (Chris Cooper) e Gene McClary (Tommy Lee Jones) sono tre pezzi grossi di quello che una volta era un cantiere navale, diventato con gli anni una grossa compagnia finanziaria cui la produzione interessa sempre meno, dato lo sforzo di massimizzare i profitti e assicurare utili sempre più elevati agli azionisti. Così, all’ennesima visita dei “tagliatori di teste”, Walker e Woodward perdono il posto: il primo, abituato a 120.000 dollari l’anno più benefit, non riesce a capacitarsi di dover cambiare radicalmente un tenore di vita (basta club del golf, via la Porsche, ridiscutere il mutuo) anche perché i colloqui di lavoro non portano a niente. Il secondo ha 60 anni, e questo dice già tutto. Anche il terzo, di più alto grado, quando oserà obiettare al capo – suo amico dagli inizi della compagnia – che le persone non sono semplicemente costi per l’azienda, riceverà il benservito. Il film è molto efficace nel rappresentare lo stato d’animo di chi era abituato a concepirsi in un certo modo all’interno dell’azienda, con un concetto di lavoro molto differente da quello conosciuto fino a solo pochi anni fa. Una distanza che viene accentuata quando Walker, dopo averle provate tutte (compresi i gruppi di sostegno per migliorare la propria autostima), accetta di fare l’operaio alle dipendenze del cognato (Kevin Costner), titolare di una piccola impresa di costruzioni. Lasciate alle spalle le punzecchiature tra i due durante le cene familiari, proprio sul valore del lavoro dell’uno e dell’altro, per Walker essere costretto al lavoro manuale (e alle inevitabili critiche del capo/cognato) diventa l’occasione per riscoprire la soddisfazione per un lavoro ben fatto come “la cosa più vicina alla felicità che si possa provare in terra” (per citare Primo Levi) e anche per ritrovare un giusto equilibrio in famiglia. Purtroppo, e anche nel film, non tutti riescono a trovare nuove prospettive professionali e questo non può mancare di suscitare interrogativi reali sull’economia e sulla società. Le risposte del film indicano una possibile soluzione nell’abbandono di certa finanza per tornare a meccanismi più semplici anche se meno remunerativi. Ma soprattutto una rivalutazione della persona, il cui valore non è certo misurabile solo nella riga dei costi in un bilancio aziendale.

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